Con l’ordinanza n. 8149 del 22.04.2016, la Corte di Cassazione, in tema di addebito della separazione, ha stabilito che la confessione contenuta in una lettera non è sufficiente ad imputare la responsabilità della fine del matrimonio al coniuge che la scrive.
La lettera con la quale il coniuge ammette i propri errori non basta, quindi, per addebitargli la separazione
Nella fattispecie la Suprema Corte ha respinto la richiesta di un uomo che aveva esibito al giudice alcune lettere inviategli dalla ex moglie in cui la stessa riconosceva di aver tenuto un comportamento sbagliato in costanza di matrimonio e si assumeva la responsabilità di essersi determinata alla separazione.
Spetta, infatti, al Giudicante verificare il fondamento giuridico delle confessioni effettuate da una delle due parti fuori dal giudizio; nel giudizio di separazione per stabilire a chi vada l’addebito, le ammissioni di una parte possono essere utilizzate, insieme ad altri elementi probatori, quali indizi liberamente valutabili, purchè esprimano fatti oggettivi, valutabili come violazione di specifici doveri coniugali e non opinioni o giudizi o stati d’animo personali.
Considerato che gli elementi da valutare sono il tempo trascorso dall’invio della lettera al giudizio di separazione, l’incidenza che hanno avuto i comportamenti confessati rispetto alla crisi della coppia nonché le condotte confessate, le lettere della moglie oltre ad essere risalenti a periodi lontani da quello della separazione non dimostrano che ella fosse venuta meno ai doveri coniugali ma si configurano come un’autocritica nel contesto della relazione matrimoniale, in cui “abitualmente il comportamento dei coniugi esprime luci ed ombre“.
Infine, l’assunzione di responsabilità di interrompere il matrimonio rientra nell’esercizio delle libertà fondamentali come quella di “autodeterminarsi nella conduzione della propria vita” familiare e personale e non significa violazione degli obblighi assunti con il matrimonio.
Si evidenzia che il ricorso dell’ex marito è stato rigetto però anche con riferimento alla sua richiesta di ottenere un assegno di mantenimento.
I giudici, infatti, non hanno ravvisato l’asserita sproporzione reddituale ed un peggioramento del tenore di vita. Dal punto di vista economico la moglie era proprietaria di una tenuta agricola utilizzata in passato per attività di agriturismo ormai cessata, mentre la villa insistente sul terreno era stata donata al figlio che permetteva alla madre di abitarvi a fronte del pagamento di un canone simbolico. Il marito era un medico specialista che, a suo dire, non esercitava più la professione e percepiva soltanto una pensione minima, ma di fatto aveva pubblicizzato la sua attività con inserzioni sulle pagine bianche e gialle. Da qui il mancato accoglimento delle richieste e la condanna alle spese.