Stalking tra donne…

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 44355/2016, ha stabilito che si configura il reato di stalking in caso di messaggi intimidatori e pedinamenti da parte di una donna nei confronti di un’altra, tali da modificarne le abitudini di vita.

Nella fattispecie la Corte d’Appello aveva, in parte, riformato la sentenza di primo grado, ritenendo configurabile non già il reato di atti persecutori, ma quelli di ingiuria e molestie.

Il Pubblico Ministero aveva, dunque, impugnato la decisione denunciando mancanza e manifesta illogicità della motivazione, stante l’omissione di qualsivoglia riferimento alle prove evidenziate dal giudice di primo grado, quali: numero e tenore dei messaggi inviati dal contenuto fortemente denigratorio, minatorio ed offensivo; l’intrusione sistematica nella vita di parte offesa, tramite pedinamenti ed appostamenti; il timore della vittima, per la propria incolumità e la necessità di modificare il proprio stile di vita, così da evitare contatti con l’imputata.

La Suprema Corte, accogliendo il gravame, afferma che se il giudice di secondo grado modifica la decisione del Tribunale ha l’obbligo di “confutare in modo specifico e completo le argomentazioni della decisione di condanna”, poiché è necessario scardinare l’impianto argomentativi di una decisione assunta da chi ha avuto diretto contatto con le fonti di prova.

Nel caso in oggetto, la Corte d’Appello ha analizzato solo parte delle prove indicate dal giudice di primo grado, finendo con il negare l’esistenza della prova del reato.

La Cassazione ritiene che “In tema di atti persecutori, la prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante“.

I comportamenti enunciati, se provati, possono, dunque, costituire fondamento del reato di stalking.

Ne consegue che la motivazione della sentenza di secondo grado è errata ove limita a poche occasioni i contatti fra imputata e parte offesa, mentre nella sentenza di primo grado si fa riferimento ad una situazione continua e protratta nel tempo, svaluta il tenore intimidatorio e denigratorio dei messaggi; trascura i messaggi in cui l’imputata minaccia di morte la madre della parte offesa ed ancora svaluta le risultanze enunciate dal Tribunale, secondo cui la parte offesa aveva modificato il proprio stile di vita rinunciando spesso ad uscire, tenendo sempre chiuse le finestre quando era in casa e cambiando i percorsi nelle strade che percorreva abitualmente.

La sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo esame.

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